venerdì 20 novembre 2015

Ancora una volta siamo costretti a fare i conti con il terrorismo. Ancora una volta corriamo il rischio di fare il gioco dei terroristi. Sappiamo bene cosa vogliono, sappiamo bene che le vittime per loro sono solo un mezzo, che il loro vero fine è muovere l’opinione pubblica alla paura, i governi a reazioni fuori misura. Dio non voglia che si commetta l'errore di secondare i loro disegni. Che l'emozione non sia il tributo da versare per sentirsi esentati dal dovere di comprendere. Che non sia strumentalizzata da chi si proclama il più fiero nemico dei terroristi ma spinge a soluzioni che potenziano gli effetti dei crimini favorendo la loro azione di proselitismo e di reclutamento. Dinanzi alla violenza che lo sgomento ci rappresenta come la furia di una cieca bestia, e che in realtà è la realizzazione di un piano freddamente studiato, vinca la ragione. Siano bandite, da un lato, le vuote costruzioni retoriche e, dall'altro, le fruste semplificazioni di narrazioni che non reggono alla realtà dei fatti. Non si ripetano gli errori commessi all'indomani dell'11 settembre 2001, cedendo alla tentazione di sentirci sullo scenario di uno scontro tra civiltà per avventure che si rilevino perdenti.
Quella che da tempo si consuma in Medioriente, e comincia a lambire le capitali europee, non è una guerra tra religioni, ma una feroce contesa per il riassetto di un'area che da qualche decennio è in permanente stato di destabilizzazione: quella che veste l'aspetto di una sanguinaria resa dei conti tra comunità sciite e sunnite, e tra correnti interne al sunnismo, non è altro che il quadro sovrastrutturale di uno scontro giocato per interessi ben distanti dalla polemica teologica. La partita è tutta geopolitica e gli attori sono in primo luogo l'Iran e l'Arabia Saudita. L'Isis – possiamo anche chiamarlo Daesh, se vogliamo togliergli ogni dignità di Stato, ma di fatto ormai controlla un'area ampia quanto l'Ungheria – l'Isis, dicevo, raccoglie materiale umano tra esaltati, autoctoni o foreign fighters, che nel disegno del Califfato sublimano una condizione di malessere esistenziale, ma i loro capi sono le schegge impazzite dei regimi caduti con le cosiddette primavere arabe, gerarchi dei regimi del partito Baath, che qualche raffinata mente si è illuso di poter manovrare ai propri fini, ben presto vedendo sfuggirsi di mano ciò che aveva creato.
È atroce, ma gli attentati di Parigi, le reiterate minacce ai paesi europei, le cellule islamiste che ormai nascono in franchising a Londra come a Bruxelles, nelle bainlieu parigine o nelle periferie di Marsiglia, sono mosse che i vertici dell'Isis giocano ai margini della loro scacchiera, e tuttavia hanno valenza solo per ciò che implicano riguardo al ruolo che dalla Turchia all'Irak, dalla Libia all'Afghanistan, fin qui hanno giocato le potenze occidentali. In Siria si decidono le politiche d'influenza sull'area, e anche se tardivamente, di certo troppo tardivamente, pare che Stati Uniti e Russia stiano arrivando a comprendere che senza una governance condivisa con chi è realmente intenzionato a spazzare via la minaccia del terrorismo non vi è alcuna via di uscita. Occorre affamare la bestia, non cedere alle sue provocazioni che si travestono da jihad. Occorre finalmente tagliare i flussi di risorse che ai criminali della bandiera nera arrivano da Riad e dal Qatar, impedire che gli approvvigionamenti economici e militari arrivino loro da canali fin qui rimasti incontrollati: immaginare crociate in difesa dell'occidente giudaico-cristiano, a ondate di bombardamenti o con campagne di terra, non può che gettare benzina sul fuoco, dando sostanza alla vulgata della propaganda salafita e waabita di un Califfato come controffensiva al neo-capitalismo e alla decadenza morale dell'occidente.
I nostri valori di tolleranza, di rispetto per la vita, di libertà religiosa non possono essere sacrificati per essere difesi. Il nostro stile di vita non deve essere messo in discussione da chi ritiene che sia la causa dell'attacco che subiamo: saremmo al controsenso di cedere a ciò che intendiamo combattere. La sfida che ci è gettata in faccia può vederci perdenti solo se lasceremo che la paura ci impedisca di vedere ciò che realmente sta accadendo. Accettarla sul piano che i terroristi dell'Isis hanno scelto sarebbe catastrofico. Vedere nell'Islam una religione di conquista, vedere nei migranti dei potenziali assassini, è quello cui veniamo tentati: cedere sarebbe la rovina. 

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